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Lo scorso 29 aprile è venuto a mancare Germano Celant, storico dell’arte, curatore e ideatore del movimento dell’Arte Povera. Una figura di spicco, che ha contribuito alla creazione di un nuovo paradigma artistico con l’idea di una critica “militante” che operava al fianco degli artisti. Tramite la sua innovativa attitudine ha aiutato, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, a diffondere l’arte italiana a livello internazionale.
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Questa notizia però non è passata per i media tradizionali, non si è diffusa tramite telegiornali e dichiarazioni ufficiali. Qual è la motivazione? I presupposti culturali sono molteplici, per questo ho deciso di parlarne con chi è direttamente coinvolto in questa oscurazione mediatica: professionisti del mondo dell’arte e studenti universitari (del settore).
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Le opinioni citate sono di: Viviana Gravano, storica, curatrice di arte contemporanea e docente all’Accademia di Belle Arti di Bologna; Eduardo Grillo, dottore di ricerca in Semiotica e comunicazione simbolica, docente di semiotica dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Bologna; Paola Menotto, assistente di galleria presso Attitudes_spazio alle arti e studentessa dell’Accademia di Belle Arti di Bologna; Benedetto Puccia, social media manager della galleria Attitudes_spazio alle arti e studente dell’Accademia di Belle Arti di Bologna.
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In questi mesi caratterizzati da una situazione inusuale, anche la comunicazione sui media nazionali e internazionali ha subito un riassestamento. La maggior parte delle notizie ricorda di mantenere il distanziamento sociale, racconta cosa accade a seguito della pandemia in tutto il mondo e annuncia l’imminente crisi economica. Quello che è chiaro è che ci sono alcuni settori che non hanno spazio nella comunicazione ufficiale.
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Ne è un esempio il vuoto informativo sulla scomparsa di una delle figure più importanti nel mondo dell’arte dell’ultimo mezzo secolo: Germano Celant. Come sostiene Eduardo Grillo, il curatore genovese non ha mai ceduto le armi critiche a esigenze di "mercato" ideologico, e ha creato le condizioni per un dibattito che seguisse nuovi binari all’interno del panorama critico internazionale. È «la figura del curatore impegnato a "dar forma" ai movimenti artistici, a lanciarli e a "compromettersi" col loro lavoro» . Germano Celant, quindi, si è sforzato di avvicinare la critica d’arte all’arte stessa e ai suoi fruitori, proponendo un modello che incarnava lo spirito – sessantottino – del suo tempo, con un rapporto umano di tipo orizzontale e non gerarchico.
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Il silenzio mediatico riguardo la sua scomparsa fa riflettere su quanto siano cambiate le relazioni tra arte, critica e fruizione, di come si sia allontanato l’ambiente artistico dal tessuto culturale popolare. I contenuti artistici proposti dai canali comunicativi italiani sono caratterizzati, come ci fa notare Viviana Gravano, da «personaggi come Vittorio Sgarbi, o in altro modo come Francesco Bonami» ma anche da veri e propri conduttori televisivi come Piero e Alberto Angela; figure molto celebri che creano «una finta spinta "popolare" alla diffusione della conoscenza delle arti».
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Il risultato di questa banalizzazione del discorso artistico è che «nelle menti dei fruitori medi, e dei potenziali fruitori» si crea «un'idea così lontana dalla realtà della critica e della storia dell'arte impegnate, profonde, con solidissime basi anche interculturali, e impegnate nel contesto sociale» . Ciò che si genera nell’attuale immaginario collettivo italiano è l’idea di un’arte molto distante da una disciplina lavorativa e professionale, oltre che non necessaria per l’accrescimento intellettuale ed emotivo.
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Questa poetizzazione delle figure degli artisti e può provocare, come ci fa notare Paola Menotto, la strumentalizzazione della morte di un personaggio pubblico, trasformandolo in un martire, rischiando che l’accento si ponga più sull’aspetto della sua celebrità in senso stretto, che sullo spessore culturale della sua figura.
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Con Germano Celant ciò è accaduto principalmente in articoli di settore: come contraltare dell’assordante silenzio dei telegiornali, la notizia ha inondato i canali specifici dei social media. Benedetto Puccia a tal proposito sposta l’attenzione su come, relegando la comunicazione dell’avvenimento ai canali per addetti ai lavori (e simpatizzanti), quanto è accaduto passi come un argomento di nicchia, aumentando l’ideale dell’arte come preclusa a una élite.
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Il rimbalzo mediatico a singhiozzo mette in luce alcune delle problematiche createsi prima della pandemia, e ora magnificate dalla situazione: la settorialità dell’informazione e, nello specifico, la scomparsa della comunicazione culturale dai media tradizionali.
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Tale oscurantismo comprende in sé stesso i suoi presupposti culturali, non dando voce a giovani, lavoratori in ambito artistico, universitari del settore culturale e non.
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La scarsità di interesse pare sostenuta anche – paradossalmente – dalla posizione espressa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali tramite un bando di concorso dal titolo Refocus . L’obiettivo è selezionare venti fotografi i quali vinceranno la possibilità di «valorizzare la loro produzione fotografica» per dare «visibilità anche istituzionale alla creatività». Il Ministero, dunque, propone una visione dei giovani artisti (la fascia di età è compresa tra i 18 e i 39 anni) come meritevoli di essere pagati in visibilità, peggiorando tramite un comunicato ufficiale la fragile situazione di queste figure già scarsamente tutelate e valorizzate nel panorama lavorativo italiano.
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In sostanza, «la banalizzazione dei linguaggi, il protagonismo egocentrico, l'assoluta assenza della relazione essenziale artista-critico o curatore, la mancanza di contenuti alti, ha prodotto un'immagine del "professionista" dell'arte che non suscita nessun appeal reale» .
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Ad aggravare il quadro già di per sé non confortante, come cornice alla posizione del Ministero dei Beni Culturali, arriva il messaggio ben chiaro dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte durante la conferenza stampa del 13 maggio sullo stanziamento di fondi a lavoratori e imprese, che parla degli «artisti che tanto ci divertono e ci appassionano».
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Esulando da un discorso ideologico e politico, questa affermazione, rende chiaro come gli artisti vengano considerati non come fautori di un messaggio e di un ruolo fondamentale per la società, quanto come strumento per “divertire e appassionare” la popolazione.
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Un’overdose comunicativa, quella che stiamo vivendo in questo momento, che si concentra sulle narrazioni della pandemia, spesso immotivatamente poeticizzate o retoriche, che non lasciano spazio a molte questioni importanti. Sembra che il Coronavirus abbia svelato quelle fragilità latenti già da tempo nell’ambito artistico e culturale italiano, che ora si traducono in una scarsa considerazione mediatica di tutti gli operanti nel mondo dell’arte, in senso lato.
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«C'è stato un tempo in cui occuparsi di procedure artistiche era anche occuparsi della società» ma a quanto pare, quel tempo è passato.
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Con il contributo di Viviana Gravano, Eduardo Grillo, Paola Menotto e Benedetto Puccia.
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